giovedì 24 agosto 2017

Il racconto dell'ancella, di Margaret Atwood



Se c’è una cosa che ho capito è che io con i best seller non vado molto d’accordo, ogni volta che un libro diventa un caso nazionale — o internazionale — e se ne fa un continuo parlare io, puntualmente, finisco con il rimanerne delusa. Temo sia proprio una questione di aspettative, perché dopo aver sentito parlare così tanto di un titolo finisco per fantasticarci su e crearmi nella mente un sacco di aspettative forse eccessive, dovute al susseguirsi di recensioni entusiaste, che alla fine non trovano quasi mai riscontro nella realtà. Questo non è per dire che Il racconto dell’ancella non mi sia piaciuto, al contrario, ma che non è riuscito a stravolgermi come pensavo avrebbe fatto: mi ero preparata a una bomba, mi sono ritrovata tra le mani un petardo, lascia comunque un segno ma l’effetto non è decisamente lo stesso.
A mia discolpa (non che pensi veramente di dovermi discolpare di qualcosa) posso dire di non essere una grande amante dei distopici: amo la lettura per il senso di immedesimazione che riesce a trasmettere, perché è finzione ma potrebbe anche essere la realtà, e sebbene i distopici portino in luce potenziali realtà — pensiamo per esempio ad Hunger Games, nessuno di noi vive né ha mai vissuto nulla del genere, eppure non riesce così difficile pensare che una società come quella ivi descritta possa un giorno, anche solo in parte, realizzarsi — non sono comunque reali. In questo senso, preferisco piuttosto una letteratura fantastica – di cui ammetto di non essere comunque una grande fan – che descriva personaggi realistici e affascinanti in un mondo irreale e irrealizzabile, in cui potermi in qualche modo riconoscere ma che non mi spinga a un inevitabile confronto con la realtà. L'ambiguità di una realtà che non è realtà fatica invece sempre a convincermi e anche in questo caso, pur avendo molto apprezzato il lavoro di Margaret Atwood, è riuscita a darmi del filo da torcere. Ma direi che è giunto il momento di smetterla di perdersi in chiacchiere e passare direttamente a parlare di questa lettura che di spunti di discussione me ne ha dati sicuramente molti.


Resta uno specchio, sulla parte del corridoio. Se giro la testa, così che le bianche alette che m’incorniciano il volto dirigano il mio sguardo da quella parte, lo vedo mentre scendo le scale, tondo, convesso, uno specchio che è come l’occhio di un pesce, e con dentro me, un’ombra deformata, una parodia di qualcosa, una figura da fiaba in un mantello rosso, che si avvia verso un momento di noncuranza che è identica al pericolo. Una suora inzuppata di sangue.

Questa citazione rappresenta, a mio parere, una metafora dell’intero romanzo. Il racconto dell’ancella narra in prima persona la storia di Difred, così chiamata poiché di proprietà di Fred, in una America messa in ginocchio da un inesorabile aumento dell'infertilità cui la neonata Repubblica di Galaad cerca di far fronte grazie allo sfruttamento delle ancelle. L'istituzione di un regime teocratico fondato sul ruolo di procreazione della donna porta alla strumentalizzazione del corpo femminile in una società in cui decenni di lotte per l'emancipazione erano riusciti a condurla a occupare una posizione sociale più che soddisfacente. Nella nuova Repubblica di Galaad l'ancella viene invece privata di una sua identità come essere umano e ridotta allo stato degradante di "utero", il cui unico scopo è quello di contribuire a mettere al mondo i discendenti dell'élite dominante. In questo nuovo mondo la donna viene così privata della "libertà di" in favore della "libertà da": libertà dagli sguardi, libertà da commenti inopportuni, libertà dal diritto intrinseco di vivere per se stessa.

Attendo. Mi compongo. Io adesso sono una cosa che devo comporre, così come si compone un discorso. Devo presentare un prodotto preconfezionato, nulla che sia nato spontaneamente.

Leggendo Il racconto dell'ancella si ha l'impressione di trovarsi davanti a storie di donne del nostro passato comune, a storie di donne che ancora oggi vivono in questo mondo e sono costrette a subire di giorno in giorno queste atroci angherie. Donne come Difred sono educate all'invisibilità – perché "essere viste è essere penetrate" – e alla povertà di spirito, viene loro insegnato che devono soffrire perché il dolore purifica la mente, private del loro stesso nome perdono ogni valore come individuo riducendosi a un mero contenitore e una preziosa risorsa nazionale. Non vengono più viste come persone, non hanno identità né diritto a una volontà propria: il loro io è il desiderio della comunità e non possono desiderare se non ciò che gli altri vogliono per loro. Vi dice niente tutto ciò?
Il racconto dell'ancella è un romanzo forte, che colpisce al cuore e allo stomaco con una violenza inaudita e ciò che più sconvolge è che quasi nulla di ciò che troviamo immergendoci tra le sue pagine ci è del tutto estraneo – forse è soltanto fisicamente lontano da noi che viviamo moderatamente tranquille nella nostra bella Italia, forse è semplicemente qualcosa che noi non abbiamo vissuto e non possiamo concepire, perché l'essere umano è spesso un animale distratto e superficiale e tende a dimenticarsi facilmente di ciò che avviene nelle zone più povere o arretrate del mondo, nei paesi che vivono sotto il dominio di atroci dittature fondate su folli idealismi e credo religiosi a noi fondamentalmente estranei. Eppure quasi nulla di tutto ciò ci è estraneo e ce ne rendiamo perfettamente conto quando una scena riprende una questione che sembra essere ormai diventata di ordinaria amministrazione anche nella nostra "evoluta" Europa: l'attribuzione della colpa in un episodio di stupro.

"Ma a chi va data la colpa?" chiede Zia Elena, sollevando un dito paffuto.
"
A lei va data la colpa, a lei, a lei" salmodiamo all'unisono.
"Chi li ha provocati?" Zia Elena è raggiante, contenta di noi.
"
Lei. È stata lei. Lei".
"Perché Dio ha lasciato che accadesse una cosa tanto terribile?"
"Per darle
una lezione. Darle una lezione. Una lezione".

Questa scena mi ha fatto letteralmente accapponare la pelle, subito prima di rendermi conto di come anche oggi, proprio qui, a casa nostra, sempre più donne vengano paradossalmente incolpate delle violenze subite da uomini violenti e privi di umanità, incapaci di contenere i loro istinti. "Se lo è andata a cercare" è quello che sentiamo dire sempre più spesso, nei tribunali così come nelle piazze e lungo le strade delle nostre città. E la donna è ancora una volta colpevole, sempre colpevole, l'unica ignobile colpevole per il semplice fatto di essere nata donna. Ma da questo a una situazione come quella descritta dalla Atwood la strada è fortunatamente lunga, ci verrebbe da dire, perché la nostra normalità è diversa, perché siamo emancipate, perché c'è ancora qualcuno che lotta per quel poco che ancora non abbiamo. Sì, ma tutti gli altri? Quelli – o meglio quelle – che non lottano? Quelle donne che si sentono ormai arrivate? Quelle che dicono di non aver bisogno del femminismo? Quelle che, inconsapevolmente, godono della loro posizione di inferiorità e fanno solo il gioco di chi per secoli le ha sottomesse e – molte volte – vorrebbe farlo ancora? La normalità non è qualcosa di universale, sono le persone a farla, è per questo che ha senso impedire che certe idee possano anche in minima parte prendere piede. Perché il passo dall'equilibrio all'oblio è sempre molto più breve di quanto si possa immaginare.

La normalità, diceva Zia Lydia, significa ciò cui si è abituati. Se qualcosa potrà non sembrarvi normale al momento, dopo un po’ di tempo lo sarà. Diventerà normale.

Con la sua opera forse più famosa la Atwood attacca direttamente le dittature, le religioni e il patriarcato e lo fa con un continuo parallelismo tra la vita della protagonista prima e dopo l'instaurazione del nuovo regime. Filo conduttore della narrazione è il colore rosso, che si impone attraverso la veste identificativa delle ancelle e torna a più riprese in diversi elementi. Rosso, il colore del sangue: simbolo, da una parte, della fertilità delle ancelle e, dall'altra, della morte – fisica e dell'anima – e delle violenze perpetrate da una società accecata dalla follia. A questo proposito, ho molto apprezzato la scelta italiana della copertina in cui tutto è avvolto nel rosso tranne il copricapo bianco che nasconde l'ancella, il cui volto è cancellato così come la sua personalità.
Il racconto dell'ancella colpisce, sconvolge, ferisce, eppure mi rendevo conto, man mano che proseguivo nella lettura, di sottolineare sempre meno passaggi e di non provare più rabbia e angoscia come nelle prime pagine – il che inizialmente non mi sembrava normale considerato l'evolversi della narrazione. Ora lo so cosa non andava: la Atwood descrive una storia verosimile, indiscutibilmente vicina al nostro passato e al tragico presente di molte zone del mondo, ma non è il nostro presente, non è una realtà in cui io possa identificarmi perché quella non è l'America di oggi e, spero fortemente, nemmeno di un prossimo futuro. No, neanche con Trump al governo! Questo è il problema, e tutto si risolve nella mia incompatibilità con i distopici. Il fatto è che Il racconto dell'ancella è un libro da leggere, un testo su cui ragionare, anche per giorni e mesi e anni se necessario, un testo che ci deve servire da campanello di allarme per evitare di capitolare un giorno in un futuro altrettanto deprecabile, ma non è la realtà. Ho letto di persone che hanno ammesso di essere diventate femministe grazie a questo libro e no, potete indignarvi leggendolo, potete soffrire e arrabbiarvi e imprecare per questo, ma diventare femministe no, non per aver letto questo. Diventate femministe perché al lavoro non siete considerate alla pari dei vostri colleghi uomini, perché i vostri padri e compagni (ma spero di no!) vi vogliono "regine" indiscusse della casa, perché le donne che vedete ogni giorno attorno a voi vengono additate come vergognose colpevoli degli stupri da loro stesse subiti. Diventate femministe per le donne cancellate dell'Arabia Saudita, per le spose bambine in India, per l'infibulazione femminile in Africa. Queste sono le cose per cui dovete arrabbiarvi, queste le cose per cui dovete alzarvi in piedi e combattere, non il racconto di una realtà che, di fatto, tale non è. Perciò leggete Il racconto dell'ancella, amatelo, soffrite per ciò che capita a Difred, ma poi indignatevi per ciò che accade davvero, oggi, nel vostro stesso mondo. È per questo che dobbiamo diventare femministi.

4 commenti:

  1. Ciao Mami! Bellissimo post come al solito :)
    Mi sento molto in linea con te riguardo ciò che scrivi... alla fine l'unico distopico che ho letto è 1984, che mi è piaciuto tantissimo soprattutto per la lungimiranza del suo autore, visto che purtroppo molte cose che descrive nel suo romanzo ad oggi si sono avverate. A parte questa grandissima eccezione credo di trovare la stessa difficoltà che hai perfettamente analizzato tu, ovvero la mancanza di immedesimazione. Mi è stato utile leggere questa tua recensione, che offre un punto di vista diverso su questo romanzo chiacchieratissimo e osannatissimo. Nonostante la curiosità ho qualche riserva a leggerlo, che sorge proprio dalla sensazione che nonostante i temi scottanti potrebbe non coinvolgermi quanto ci sarebbe da sperare. Continuo a pensare che, quando ne avrò voglia, affronterò questa lettura, sperando che superi le mie aspettative.

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    1. 1984 purtroppo non l'ho mai letto ma, pur trattandosi di un distopico, è uno di quei testi che sento assolutamente il bisogno di recuperare, sarà che è un classico e io amo i classici :) Per quanto riguarda Il racconto dell'ancella, è un bel libro e molto coinvolgente, tanto che una volta iniziato a leggerlo non riuscivo più a staccarmene, ma non l'ho trovato il grande capolavoro che tutti osannano. Certo, le tematiche trattate sono importantissime, e io per prima me ne interesso molto, ma in quest'ottica non è forse più importante leggere reali testimonianze sulla vita della donna nel mondo anziché fare di un testo di pura fantasia una bandiera del femminismo? Questa cosa mi ha disturbata tantissimo...

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  2. Ho questo libro in wish list da parecchio e la tua recensione, sebbene non entusiasta come quella di altri, non mi ha comunque scoraggiata, anzi. Come te, neanch'io amo i distopici, però credo che questo possa essere diverso, O almeno, così intuisco dal tenore dei commenti. Spero di potermene fare presto una mia idea:)

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    1. Non voglio assolutamente scoraggiare a leggerlo, anzi. Anch'io volevo moltissimo leggerlo e di per sé mi è piaciuto e l'ho letto tutto d'un fiato, però non mi ha fatto urlare al capolavoro, né mi ha in qualche modo sensibilizzata al problema che tratta per il semplice fatto che parla di qualcosa che non esiste e quindi non è un problema. Lo so, ho seri problemi con la mancanza di realismo nella letteratura e per questo sono anche convinta che, se non è riuscito a conquistarmi, sia un buona parte dovuto a questo. Attendo comunque di sapere i tuo parere quando lo leggerai :)

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